Francesca Campora
Apri le braccia, chiudi gli occhi e lasciati cadere all’indietro; non voltarti a misurare la distanza tra te e la persona alle tue spalle…non è una questione di centimetri, il patto è la fiducia incondizionata.
Lasciati cadere all’indietro e dimostra, con il tuo abbandono, quanta fiducia hai in chi è dietro di te.
L’obiettivo di questo comune e diffuso “gioco – test” è, il più delle volte, quello di dare prova della – o, meglio ancora, di mettere in scena la – fiducia che riponiamo nelle persone per noi importanti. Ti conosco, mi fido di te, mi fido della nostra relazione e quindi mi abbandono. Più raramente, la sfida è quella di sapersi abbandonare – e quindi dimostrare fiducia – anche in presenza di persone meno intimamente conosciute – colleghi di lavoro, membri di una stessa associazione, compagni di scuola…etc…In questo caso l’obiettivo è quello di misurare il grado di fiducia genericamente diffusa nelle organizzazioni.
Ma davvero la capacità di abbandonarsi rivela il grado di fiducia che si ha in una persona o in un gruppo? Non ci sono forse in gioco delle caratteristiche personali che rendono più o meno facile il gesto sia a livello fisico che mentale?
E, anche assumendo che il gesto misuri davvero il grado di fiducia, è giusto che, come nel caso delle conoscenze meno dirette, la fiducia sia un atto di gruppo o di sistema? In un mondo ideale in effetti si, la fiducia può e deve essere anche una caratteristica di relazioni indirette. Ma solo a patto che siano rispettate delle precise regole.
Osservata dal test dell’abbandono all’indietro, la fiducia potrebbe somigliare a un atto fideistico, eccessivamente ottimistico, a tratti quasi irragionevole.
Nell’ultimo anno il tema della fiducia ricorre, rimbomba e richiama. Risveglia riflessioni e pone domande.
Fiducia concessa e ritirata a più riprese. Fiducia nelle cure. Fiducia nelle informazioni, anche se dissonanti e litigiose. Fiducia nei medici, anche se discordi e litigiosi. Fiducia nei mercati. Fiducia nella ripresa. Fiducia nella capacità delle nostre donne e delle nostre famiglie di sobbarcarsi le falle del sistema. Fiducia nel domani (nell’oggettivo mistero del futuro, non si nega mai). Fiducia nelle Istituzioni. Fiducia nei concittadini. Fiducia in noi stessi.
La fiducia è un percorso sempre aperto e mai concluso. Si alimenta di gesti concreti e credibili e si rinnova, è vero, anche grazie a gesti generosi, ma sempre e solo fino a prova contraria.
Di fronte a una sfida, abbiamo più o meno fiducia in noi stessi perché ci sappiamo più o meno competenti o preparati rispetto a quella specifica situazione. Oppure perché, anche in assenza di strumenti specifici, ci conosciamo generalmente in grado di far fronte alle cose della vita con buon senso, magari chiedendo aiuto a chi riconosciamo come più competente in quello specifico ambito e quindi meritevole della nostra fiducia.
La fiducia è e deve essere storicamente supportata; si manifesta perché un insieme di fatti concreti e sperimentati danno la possibilità alle persone e alle comunità di concedere spazi e risorse perché nuovi fatti positivi si realizzino e vadano nuovamente a sostenere e rafforzare il patto di fiducia.
C’e’ spazio per tutto: errori, aggiustamenti, revisioni, ripartenze. In questo senso la fiducia sa essere generosa e flessibile. Sa che un errore può essere una grande opportunità. Ma lo storico è traccia indelebile, la fiducia non ammette incurie o distrazioni prolungate. Le risorse non sono illimitate e nemmeno il nostro tempo. In assenza di stima (esito positivo di una valutazione), la fiducia decade e le persone e i sistemi danno vita a storie differenti.
Nulla a che fare quindi con l’abbandono né tanto meno con la sindrome di Pollyanna.
La fiducia esige fatti, verifiche, accertamenti, controlli periodici, rinforzi, evoluzione, dinamismo.
E’ esattamente quello che succede anche nelle relazioni più intime e di esclusivo orizzonte affettivo. I gesti di tutti i giorni nutrono la fiducia nell’altro e nella relazione, che così ha le risorse per mettersi alla prova, sperimentarsi, evolvere, migliorare.
Torniamo a questo ultimo anno. Torniamo alla fiducia che deve sostenerci, tutto e tutti, ora che la pandemia ha dimostrato più efficacemente di qualunque libero mercato che siamo tutti, nel bene e nel male, sulla stessa barca. Si chiama pianeta, si chiama società globalizzata.
Il momento è delicatissimo: tornare indietro non è possibile e tanto meno immaginabile, la vita non sarà più quella di prima e, qualsiasi cosa vorrà dire, prima di essere un fatto, credo sia una grande opportunità.
Da ogni angolo del mondo chiediamo fiducia perché il lavoro da fare è tanto e necessita risorse, tempo, coordinamento.
La chiediamo ai nostri figli, mentre in una manciata di mesi cerchiamo di rimediare a decenni di incuria, spreco e mediocrità.
E va bene, chiediamogli fiducia ma, nel frattempo, lavoriamo come mai per meritarcela.
Lavoriamo perché oltre a darla a noi, sappiamo crescerla dentro di sé e coltivarla tra di loro, con un comune impegno civico che renderà possibile la generosità.
Nell’edificio della fiducia, nessuno è esente da doveri: c’è il dovere di meritarsela, c’è il dovere di monitorarne l’affidamento.
Non chiediamogli, mai più, di chiudere gli occhi e abbandonarsi nel vuoto lasciato da noi.
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