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Francesca Campora

Alla fine della prima ondata della pandemia, abbiamo chiesto alla scuola di stare dalla parte della vita. La vita quotidiana.

L’improvvisa sparizione delle abitudini di ogni giorno – la sveglia presto, la colazione ad occhi mezzi chiusi, la volata fuori dalla porta di casa per prendere il bus in orario, la classe, i compiti, l’interrogazione a sorpresa, i compagni desiderati e quelli evitati, l’inaspettato piacere di una lezione di storia pazzescamente vicina a oggi – ci ha ricordato cosa realmente vuol dire scuola.

Abbiamo visto i nostri figli adattarsi all’assenza di vita, sperando che pochi resti consolatori – una pizza d’asporto, l’ennesimo film, le video chiamate con amici e parenti, due palleggi sul balcone, una pattinata solitaria attorno al condominio, i compagni collegati ma la classe smaterializzata, dissolta, senza odori e senza presenze – potessero arginare tristezza e frustrazione.

Ci siamo ricordati che senza scuola, i ragazzi, che per fortuna non sono mai tutti uguali, non hanno più avuto la libertà di esprimere e condividere le proprie differenze. La fragilità sociale e materiale di molte famiglie ha reso l’isolamento una privazione spirituale ancor più che fisica.

Addetti ai lavori o no, con cicatrici più o meno vistose, ora tutti sappiamo che la scuola innesca e abilita la vita.

E mentre eravamo immersi in un conteggio senza tregua – quanti contagi, quanti vaccinati, quanti giorni al prossimo decreto, quanti giovani abbandonano la scuola, quanti disturbi del sonno, quanti dell’alimentazione, quanti richiami per aggressività, quanto dolore…ma come si conta il dolore? – una bomba è improvvisamente esplosa nelle nostre piazze, nella nostra memoria e ha fatto saltare per aria il comodo divano dove abbiamo scontato la prigionia, tutti i conteggi, tutta la presunzione di poter alla fine comunque controllare tutto.

Decenni vissuti come un esercito di piccoli Prometeo capricciosi, senza responsabilità e senza immaginazione, hanno rotto i patti con la natura e con la storia.

Non eravamo preparati alle conseguenze del cambiamento climatico e alla pandemia perché ci pensavamo padroni di un pianeta di cui siamo invece una manifestazione tra le tante, forse non la più importante ma sicuramente la più nociva, infestante e dannosa; non eravamo preparati alla guerra perché pensavamo di essere immuni dalle ricorrenze della vita e della Storia, dalle conseguenze delle nostre stesse azioni, ormai insensate, veloci ma totalmente prive di direzione.

Cosa abbiamo fatto in questi ultimi ottant’anni per permetterci e meritarci il lusso della spensieratezza e della noncuranza che ci ha accompagnato fino a febbraio del 2020?

Heidegger accostava la mano non all’agire, ma al logos, cioè al pensiero e alla parola che lo esprime. In particolare, pensava il logos a partire dalla mano che legge del contadino “senza questo raccogliere, senza cioè la raccolta del grano e dell’uva, non saremmo mai in grado di leggere e dire una sola parola”. In questo modo, il pensiero, il discorso, sono propri di chi è in grado di ascoltare i segreti della terra e ubbidire al mistero della sua imprevedibilità “Noi abbiamo orecchi poiché possiamo prestare ascolto con attenzione, ed è mediante questo atto di attenzione nell’ascolto che possiamo percepire il canto della terra, il suo vibrare e il suo fremere, che non viene minimamente sfiorato dal rumore frastornante che talvolta l’uomo produce sulla logora superficie della terra.”[1]

Pensiamo e agiamo a misura d’uomo quando restiamo leali alla nostra presenza tra Natura e Storia. Il resto ci devia, ci allontana, ci lascia arroganti e quindi massimamente vulnerabili.

In un commento comparso su La Repubblica del 2 marzo scorso, lo scrittore russo Sergey Lebedev scrive: “Adesso che le parole “russo” e “russi” sono diventate ulcere lebbrose per molti anni a venire, noi russi dovremmo ripensare da zero la nostra cultura, la nostra storia, il nostro sistema politico. Il mondo non ha bisogno soltanto di una Russia senza Putin. Il mondo ha bisogno di una Russia sprovvista per sempre di una coscienza imperiale. Molti dei miei conoscenti e amici russi oggi chiedono perdono agli ucraini. Credo che sia troppo presto per chiedere perdono. Noi, cittadini russi, non abbiamo ancora il diritto di farlo. Lo avremo soltanto quando i criminali di Stato al potere nel nostro Paese saranno assicurati alla giustizia e condannati alla punizione che meritano. Se ciò non accadrà, non ci potrà essere perdono alcuno per noi.”

Riconoscere il crimine, contro noi stessi, contro la natura. Ripensare da zero la nostra cultura, la nostra storia, il nostro sistema politico. Ripensare da zero la nostra presenza. Tornare ad ascoltare la terra che abitiamo e nutre il nostro corpo e le nostre possibilità.

Non è la prima volta che la Storia ci offre l’opportunità di rifondarci. Non sarebbe la prima che volta che non sapremmo coglierla.

Il pensiero va alla Scuola, che con la Storia condivide l’iniziale e la probabilità di un nuovo inizio.

Oggi alla scuola chiediamo di stare dalla parte della vita quotidiana e, da lì, aprire le strade di un futuro a misura d’uomo.

 

[1] Martin Heidegger “Eraclito. L’inizio del pensiero occidentale. Logica. La dottrina eraclitea del Logos”

 

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