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Francesca Campora

Le assenze si rivelano ognuna a proprio modo.

Alcune con costanza e metodicità, secondo schemi ripetitivi. Nulla di indolore però, la consuetudine con l’intensità non elimina la fitta. Sempre quella. Piccola o grande che sia.

Ogni volta che, prendendo il telefono per uscire di casa, alzo lo sguardo e c’è quella foto di anni fa in cui eravamo tutti assieme…e c’eri anche tu…

Ogni volta che arriva la primavera e ricordo quanto fosse bello abitare il mare…

Ogni volta che, da un anno a questa parte, abbiamo istintivamente desiderato stare con delle persone o fare delle cose … e abbiamo dovuto renderci conto, ancora una volta, ancora un altro giorno, con l’ennesimo quotidiano ingresso in un sogno bizzarro che…no, non si può.

Non si può essere esseri umani.

Reiterata assenza di libertà ma, intendiamoci, nessuna violenza.

Un fatto totalmente innaturale e spiazzante che si insinua con i codici del dovere, dell’accettazione e della rassegnazione. All’inizio è un sacrificio necessario, ci si mette sull’attenti. Poi diventano gli ultimi sforzi. Si fa, ancora questa volta. E un’altra ancora. E intanto ci allontaniamo…lentamente, impercettibilmente…da noi stessi, dal desiderio che trova modi per tradursi in azione, dalla vita.

Poi un giorno, improvvisamente, fa irruzione un’altra assenza. Nessuno schema reiterato, una fredda, rettilesca e frustante constatazione. Non ridiamo più. Da quanto tempo non ci facciamo una bella risata? Una grassa, rotonda, compagnesca risata?

Non intendo sorridere. Per fortuna abbiamo ancora infiniti motivi per sorridere. Anche profondamente.

Intendo ridere di gusto, ridere a crepapelle. Ridere smodatamente. Ridere e quindi celebrare quel hic et nunc che ci rende creature imperfette ma capaci di bellezza.

Le risate quelle vere, quelle dal vivo, con la famiglia, gli amici, a teatro o al cinema o al circo…quelle, sono sempre più echi lontani. Echi e non vibrazioni positive del nostro corpo e del nostro animo. Vitamine, ricostituenti, ungenti nelle relazioni tra sé e sé e tra sé e l’altro.

Ho imparato a voler bene alla mia amica Francesca quando in seconda elementare abbiamo riso per ore e poi giorni, assieme, della stessa cosa. Lo ricordo ancora, è stato formativo più di 100 ore di matematica. O, le 100 ore di matematica, non sarebbero state le stesse senza quella risata. Quella risata ci ha portate lontano.

Le risate stanno sparendo. E con loro le nostre migliori energie. Tutto attorno ci sta dicendo che dobbiamo e possiamo farne a meno ma, semplicemente, non è affatto vero.

Se non a costo di soffrire, molto. A qualunque età. Se non a costo di perdere non solo la gioia del qui e ora ma anche la prospettiva di ogni sacrificio.

Abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a ricordare che meritiamo gli abbracci e le risate che fanno venire il mal di pancia e lacrime agli occhi. Nessuno ne parla più. Peggio, magari si ragiona su quanto droplet contenga una risata…e quando gli occhi lacrimano dal ridere? Quelle lacrime saranno contagiose?

In effetti lo sono, lo dovrebbero essere….

Se non tutti, qualche aula, qualche palcoscenico, qualche piazza, qualche sipario DEVONO restare aperti per ricordarci tutto questo…per darci la forza e mantenere il senso.

Qualcosa è rimasto…abbiamo libri e televisioni, visite numerate a parenti e amici più cari…ma allo zoo si sa, anche se il cibo arriva tutti i giorni, gli animali hanno sempre meno appetito.

E’ nella libertà che il bene diventa una scelta e quindi un insegnamento.

Quando toglieremo la mascherina, per i nostri figli avremo vinto solo se saremo stati in grado di coltivare e finalmente liberare, le loro risate.

Non è umana questa distanza che amplifica e non cura.

Di fronte al dolore un’anima chiede speranza; nel silenzio e nella rinuncia si coltiva solo buio.

 

Foto di Tawny Nina Botha da Pixabay

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